È di pochi giorni fa la notizia che riporta della denuncia da parte di alcune scuole al Ministero dell’Istruzione di un uso scorretto delle piattaforme digitali, utilizzate per la didattica online: gli studenti avrebbero condiviso i link per partecipare alle lezioni con dei complici, estranei alla classe, per ricoprire di insulti i professori. In un momento storico in cui, nonostante la fatica da parte degli insegnanti che si sforzano a portare avanti la didattica online, è venuta inevitabilmente a mancare una parte relazionale importante (fosse solo perché quelle virtuali sono relazioni senza corpo), ci sarebbe da chiedersi dove vanno a finire le emozioni dei ragazzi, che a volte sembrano trovare a scuola un buon palcoscenico per essere drammatizzate. Costretti a casa, si passa molto tempo connessi sui social, per lavoro, studio o soltanto per sconfiggere la noia e le emozioni vengono agite, incanalate anche attraverso altri mezzi di comunicazione e socializzazione, gli stessi grandiosi e potenti strumenti, salvifici per tutti in questa fase di quarantena forzata, che facilitano pure il proseguimento della didattica: PC, cellulari, tablet. Pensiamo, in particolare, al fenomeno del cyberbullismo, che per definizione “è un atto aggressivo, intenzionale, condotto da un individuo o un gruppo di individui attraverso varie forme di contatto elettronico, ripetuto nel tempo contro una vittima che non può difendersi» (Smith, 2008). A differenza del bullismo, il cyberbullismo potenzialmente si consuma ovunque e in ogni istante e si manifesta attraverso diverse forme, alcune più esplicite, altre più subdole. Questo rende difficoltoso individuare luoghi e tempi in cui tali dinamiche relazionali avvengono, con la conseguenza che il fenomeno appare meno riconoscibile e di più difficile gestione. Non ha bisogno di relazioni faccia a faccia, quelle che tanto ci mancano in queste settimane: chiunque, anche una ragazzina gracile di 12 anni può scatenare una guerra dal suo salotto, basta che abbia a portata di mano un cellulare e forte il desiderio di terrorizzare. Il piccolo bullo o cyberbullo, con i suoi atti aggressivi, non fa altro che cercare un adulto che finalmente lo veda, ma capita che anche chi si ritrova ad essere vittima, addirittura provocando attivamente i comportamenti sleali che subisce, voglia essere visto, a tutti i costi, anche sotto una luce negativa, svalutante.
L’invito è, quindi, a non sottovalutare tali fenomeni, che non sembrano trovare tregua nemmeno in tempi di Coronavirus e a comprendere che solo se si è consapevoli di un problema si possono mettere in atto strategie per contrastarlo o prevenirlo. Il tutto senza demonizzare l’uso di internet e dei social. Anzi, per gli adolescenti sono mai come ora un grande laboratorio esperienziale per sperimentare, informarsi, sentirsi parte di un gruppo, curiosare, confrontarsi, coltivare e tenere vivi i legami con i pari e, perché no, ogni tanto per trasgredire, magari per superare una timidezza. Tantissimi adolescenti e pre-adolescenti ora hanno accesso al cellulare proprio o dei genitori e, costretti tra quattro mura, è molto probabile che trascorrano più tempo del solito tra Tv, social, videogiochi. Del resto, è pensabile che anche i genitori più severi siano più elastici a riguardo, in un periodo eccezionale come questo. L’importante è che queste esperienze, che di per sè fanno crescere, siano vissute nel rispetto di sé e dell’altro, con il giusto limite, una certa dose di consapevolezza e capacità di contenimento e autocontenimento, anche per scongiurare il rischio della dipendenza.
Insomma, il mondo virtuale è permeato da una forte dimensione emotiva e, senza limiti di spazio e di tempo, il cyberbullismo, anche se spesso è un prolungamento del bullismo in senso classico, non è cosa facile da mettere in quarantena e, che sia agito dai più piccoli o dai più grandi, rende ancora più rarefatto il confine tra virtuale e reale in questi giorni di surrealtà. L’avviso per tutti “i naviganti” è provare ad esercitare quella essenziale capacità di mettersi nei panni dell’altro che è l’empatia, anche se in questo periodo si sosta molto dietro ad uno schermo, che non ci permette di guardare l’altro negli occhi da vicino, abbracciarlo. Potremmo iniziare noi adulti, soffermandoci a riflettere su come moduliamo la nostra aggressività, sul modo in cui noi stessi interagiamo in rete con gli altri utenti o banalmente su quanti secondi ci concediamo per ragionare sulle conseguenze delle nostre azioni, prima di cliccare su “pubblica” o “condividi”. Del resto nelle call noi vediamo il viso degli altri ma anche il nostro, in un quadratino che ci fa da specchio: anche da casa ci si può osservare e occuparsi del modo in cui si sta insieme in gruppo, in classe, a scuola e nella comunità in generale, per non agire il ruolo di gregari virtuali o spettatori inconsapevoli di quello che accade ai più piccoli, ai più fragili, in un mondo virtuale che ha, però, effetti reali, tangibili sulle nostre vite e sulle nostre emozioni.
Mariangela Caputo, psicologa clinica specializzata in età evolutiva
Centro di Psicologia Ulisse