L’esperienza del Coronavirus continua a modificare il modo di lavorare anche degli psicologi. Come molti miei colleghi mi ritrovo a fare consulenza a distanza, cosa che ha richiesto un riassetto tecnico oltre che tecnologico, lo stesso processo che ha investito i docenti con la didattica a distanza.
E mentre i miei sforzi erano concentrati sul non perdere di vista obiettivi e strumenti professionali, mi sono imbattuta in modo massiccio nelle richieste di aiuto di persone di età compresa tra i 70 e i 90 anni.
Giuseppe è un uomo di 75 anni, convive con una fidanzata più giovane, da settimane è in preda a “un’ansia tremenda, tremo, mi si blocca il respiro”.
Rosa è una signora di 81 anni:“in gamba, iperattiva, di giorno faccio tutto, così non penso, ma di notte mi vengono pensieri bruttissimi”.
Antonio ha 85 anni, vive con la moglie: “non riesco a fare più niente, faccio fatica a leggere, a seguire cosa dicono in televisione, non ho più fame”.
In tutte le storie che ho incontrato in queste ultime settimane, ci sono sintomi di ansia, depressione, insonnia, finanche attacchi di panico, tutti sintomi per cui è già stata iniziata una terapia farmacologica sotto controllo medico; è quindi evidente che la domanda latente di queste persone non è quella di essere aiutati a “togliere” i sintomi, ma quello di essere ascoltati e aiutati a pensare senza che i “pensieri brutti” allaghino tutto.
Non è solo paura di ammalarsi e morire quello che c’è sotto.
Emergono passati, anche molto lontani, in cui c’erano stati gli stessi sintomi ed è come se il Coronavirus riportasse queste persone indietro in quel pezzo di vita che è stato molto difficile e doloroso, in cui sono stati male e si sono sentiti impazzire.
Rosa ha paura oggi di aver bisogno di un’ambulanza e di vedere arrivare gente estranea, “vestita strana come non sono abituata”, e viene fuori che allo stesso modo negli anni 70 all’epoca dei sintomi depressivi, aveva cambiato casa e aveva vissuto malissimo l’incontro con altra gente, altre famiglie, altri modi di essere.
Giuseppe, costretto anche lui come tutti a stare a casa, sente le pareti che si chiudono; da giovane aveva avuto un “esaurimento nervoso” e ricorda che pativa la sua famiglia di migranti numerosa ma chiusa, dove si sentiva di vivere da recluso, in casa, senza amici e senza contatti sociali.
Antonio racconta di avere avuto una “brutta depressione” quando anche l’ultimo dei suoi quattro figli si era finalmente sistemato, e adesso patisce terribilmente la separazione coatta dagli affetti dei suoi nipoti.
In queste storie il Covid-19 arriva portando con sé l’angoscia di morte sicuramente, ma anche i fantasmi del passato e, ancora più della paura di ammalarsi di questo nuovo virus, c’è la paura di ricadere in vecchi baratri.
L’aiuto psicologico non consiste quindi nel rassicurare che andrà tutto bene, ma nell’aiutare a vedere quanto di simile si sta ripetendo, e quanto di diverso però c’è oggi.
Alessandra Crispino
psicologa- psicoterapeuta
Centro di Psicologia Ulisse