Philip Schultz è statunitense, di mestiere fa il poeta e il direttore di una scuola di scrittura creativa e nel 2008 ha vinto il prestigioso premio Pulitzer per la poesia.
Ma non è questo il motivo per cui oggi scrivo di lui.
Philip Schultz è stato un bambino che ha faticato ad imparare a leggere e scrivere e che, a cinquant’anni suonati, ha scoperto di essere dislessico quando il suo figlio maggiore è stato diagnosticato.
Così ha forzato sé stesso, superando ansie e timori, e ha scritto un breve libro in cui racconta la sua vita da studente “inadeguato”, attraverso la condivisione di stati d’animo e di strategie cognitive più o meno funzionali.
Il suo racconto è un condensato di conoscenza su come le peculiarità della dislessia si manifestano e molte frasi sono un riassunto perfetto di pagine e pagine di trattati.
Tra le tante frasi che mi hanno colpito, ne ho scelta una che mi sembra la risposta ai tanti che, dopo aver a lungo parlato di dislessia o di altre difficoltà di apprendimento, rispondono “Sì, tutto vero e tutto bene, MA si distrae in continuazione”. Come se fossero due entità diverse, come se stessimo parlando di una volontà, cattiva, che porta la mente dell’alunno o del figlio altrove.
E in quel MA, piccola congiunzione coordinativa avversativa, sta tutta la distanza tra chi ha una difficoltà di apprendimento e chi no, tra chi non riesce ad abbandonare il proprio modo di vedere l’apprendimento per abbracciarne uno dai presupposti differenti.
Scrive Philip Schultz a proposito della distrazione, della chiusura su ciò che si sta facendo in quel momento “…La mente del dislessico è un muscolo che ricorda che deve proteggersi dal ricordo di eventi dolorosi: si chiude quando è sovraccarica per risparmiare ulteriore fatica, cosa che accade automaticamente, senza preavviso…” [pag. 86, 2015].
E ancora, in un passaggio paragona il rapporto tra il dislessico e il suo cervello a quella descritta nel film “2001: Odissea nello spazio” quando il computer Hal attacca gli astronauti.
“Sembrava che il film parlasse della mia relazione instabile con il mio cervello, che così spesso mi faceva sentire estroverso e insicuro, eccitato e vulnerabile allo stesso tempo. Gli astronauti erano diventati dipendenti da Hal, e lo davano per scontato. Era il loro cervello, il sistema centrale che governava la nave spaziale e la loro vita. E all’improvviso, se volevano sopravvivere, dovevano rendersi conto che Hal era anche un nemico, che voleva far loro del male. Mi sentii allo stesso modo quando realizzai che il mio cervello stava usando l’ansia per controllare quello che riuscivo a capire e di cui scrivevo, che stava cercando di censurare i miei pensieri.” [pag. 43, 2015]
Proviamo a ricordarci di questa lotta per imparare ogni volta che, di fronte alle difficoltà di un bambino o ragazzo con difficoltà di apprendimento, ci viene voglia di usare quella piccola congiunzione coordinativa avversativa, ogni volta che inseriamo un “MA” nelle nostra frasi.
Forse la congiunzione più giusta per riconoscere questa lotta e il suo peso è ancora più breve: basta una “E” per ribaltare la prospettiva e comprendere davvero che dislessia non è solo confondere le lettere.
Ombretta Veneziani – Psicologa Psicoterapeuta
Bibliografia:
P. Schultz, “La mia dislessia. Ricordi di un premio Pulitzer che non sapeva né leggere né scrivere”, Donizelli editore (2015)